Ebook #3

Ebook #3, per ragazzi dalla II media inferiore alle superiori

Anteprima del libro

La Befana è scappata in Borneo 1.0 di Giorgio Villella
Cosa vuol dire provare che la befana, Giove o Shiva non esistono

Relatività del Torto di Isaac Asimov
Un articolo sugli “errori” nella scienza


La Befana è scappata in Borneo
Una volta in treno ho parlato a lungo con un occasionale compagno di viaggio, un sacerdote giovane, simpatico e disponibile. Ci siamo messi subito a chiacchierare e quando gli ho detto, un po’ imbarazzato, di essere ateo, anzi di essere stato per otto anni segretario nazionale dell’Uaar, Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti, lui sorridendo mi ha risposto che non potevo essere contemporaneamente razionalista e ateo perché non si può dimostrare che dio non esiste e quindi un razionalista può dire solo di essere agnostico. Comunque scrisse in un foglio <uaar.it> per andarsi a vedere a casa il sito degli “atei”…
Questa bizzarra idea, che essere atei è irrazionale, mi era stata ripetuta in molte altre occasioni. Feci finta di non aver capito il suo ragionamento e gli chiesi di precisarlo meglio. Lui mi rispose con un lungo discorso che io non interruppi. Solo alla fine replicai.
Per maggior comodità dei lettori, adesso divido i suoi ragionamenti in quattro punti, subito sotto i quali scrivo le mie risposte:
1. Disse che la mente umana non può capire il Grande Mistero di Dio, della Vita, dell’Universo, della loro Bellezza, ecc., pronunciando le parole che ho scritto con l’iniziale maiuscola con grande enfasi.
Risposi al mio compagno di viaggio che a me dio non è mai apparso, in modo che io potessi farmi una idea precisa della sua esistenza. Ma molte persone, cui non è mai apparso, mi hanno parlato di lui. Io capisco con chiarezza quello che dicono le persone che mi parlano di dio e posso giudicare se quello che dicono è sensato oppure no. Metto in discussione le loro affermazioni razionalmente.
Che Darwin ha risolto il cosiddetto grande mistero della vita, che si è sviluppata gradualmente in due/tre miliardi di anni, a partire da forme relativamente semplici, con la legge della selezione naturale, altrettanto semplice. Che se dio non esiste non c’è nessun grande mistero dell’esistenza di dio. Il mistero c’è solo per quelli che credono in dio.
Che è rimasto il problema dell’esistenza dell’universo che non abbiamo conoscenze sufficienti per risolvere. Per ora gli scienziati possono fare solo ipotesi più o meno plausibili. Come per tanti altri fenomeni che attualmente non sappiamo spiegare.
Che dire che l’Universo l’ha creato dio introduce un nuovo mistero: chi ha creato dio? Come mai c’è dio e non il nulla?
Che l’idea di dio è contraddittoria perché non può essere onnipotente, giusto, buono contemporaneamente e aver creato i terremoti e i carnivori, per esempio lupi che sbranano agnelli e tigri che ammazzano bambini.
2. Ripeté che con la ragione non si può né dimostrare che dio esiste, né dimostrare che non esiste. Disse che l’ateismo è una convinzione legittima, ma non razionale. Disse che chi usa solo la ragione non può avere la Certezza Assoluta che Dio non esiste e quindi non ci possono essere atei razionali. Disse che quindi anche il non credere è un atto di fede.
Dentro di me pensai “che con la ragione non si può dimostrare che dio esiste”, è giusto, ma per credere occorre anche essere ingenui e portati al misticismo oppure essere stati indottrinati da piccoli e tenuti lontani da chi non ha fede, in modo da non avere esempi diversi che inducano a ragionare.
A lui replicai che è chi fa una affermazione che deve provarla. Se non ci riesce, chi la respinge dopo averla adeguatamene vagliata, non fa nessun atto di fede. Qualcuno ha scritto che collezionare francobolli è un hobby. Collezionare invece che francobolli tappi di bottiglia è ancora un hobby. Il non collezionare francobolli o tappi di bottiglia non è un hobby. Cioè non fare un atto di fede non è a sua volta un atto di fede. Se entro in cucina e trovo mio nipote con le dita e la bocca sporche di nutella e il vaso aperto sul tavolo e mi dice che lui è andato in cucina solo per bere un bicchiere d’acqua e che il vaso si è aperto da solo, non credere alla sua affermazione, come non credere a chi mi dice che un esiste un dio contraddittorio, sarebbe un atto di fede?
Che se non si può dimostrare l’esistenza di dio, ma serve un atto di fede, come ha fatto allora lui a decidere quale religione è quella vera? Di tutti gli dei delle religioni che si combattono perché ciascuna crede di essere la rappresentante del vero dio, perché ha scelto la cattolica? Perché dio non interviene per dirgli e dirci quale è la vera? Che se lui esclude le varie altre religioni ragionando, allora io posso, ragionando, escludere che anche la religione cattolica sia vera».
3. Mi disse che i dubbi sull’esistenza di dio vengono a tutti (tra me pensai “basta che uno sia un po’ ragionevole”). Quando vengono a lui, si mette in ginocchio a pregare con grande slancio e molto a lungo, fino a quando sopraggiunge una specie di stravolgimento, di beatitudine. Ogni dubbio scompare e sopraggiunge una gran pace. Mi invitò a provare.
Risposi che mettersi a pregare dio quando non si crede, mi sembra una buona tecnica di lavaggio del cervello che può funzionare con adulti fragili e impressionabili. Non credo che funzioni con gli altri. Lo invitai a pregare la dea Shiva o Buddha. Funzionerebbe lo stesso? O magari meglio? Se lui non vuol pregare dei in cui non crede, dovrebbe aspettarsi che io non preghi il suo.
4. Aggiunse: «Esistono alcuni, in diminuzione, che si dichiarano atei: sono relativisti perché non hanno Principi Assoluti e Definitivi. Gli atei soffrono per la mancanza di dio, sono senza certezze e senza guida morale, asociali, egoisti, pessimisti e infelici. Milioni di persone adulte si convertono». Intendeva naturalmente “al cattolicesimo”.
E io: «Si sbaglia, …
Aggiunsi che mi era stato facile ribattere alle sue affermazioni. Per tutta la vita ho dovuto giustificarmi di essere ateo con parenti, insegnanti, amici e ormai conosco bene quel che mi dicono e ho ben chiaro come rispondere. Come quando in collegio ho smesso di fare la comunione (ma sono stato costretto a farla a Pasqua), quando mi sono sposato in municipio e quando non ho battezzato i figli.
Continuai dicendo che inoltre da segretario dell’Uaar sono stato invitato, di solito su iniziativa degli studenti, a parlare di ateismo e religione in una dozzina di scuole medie superiori. Da notare che quasi tutte le volte il dirigente scolastico ha accettato la mia presenza a scuola a condizione che fosse invitato anche un cattolico (di solito un teologo, un sacerdote o un insegnante). “Perché —dicono i dirigenti in questi casi— nelle scuole è giusto che ci sia pluralismo”. Ottimo principio. Il dibattito è preferibile al monologo. Peccato che la regola valga solo le pochissime volte che andiamo a parlare nelle scuole noi atei o qualche musulmano. Quando invitano un cattolico, magari un sacerdote, un vescovo, di contraddittorio non se ne parla più. Altro che pluralismo, cioè laicità delle Istituzioni pubbliche (pubbliche vuol dire di tutti), principio sancito dalla Costituzione.
… … …
A proposito della befana gli ho detto: «Io sono a-teo esattamente come sono a-befano: se è razionale essere abefano, allora io sono, senza contraddizioni, anche razionalmente ateo».
Per chiarire meglio il mio punto di vista, gli raccontai una lunga storia, con due episodi che riguardano la befana. Quando scoprii che non esiste e di un antropologo che mi disse di averla incontrata.
Molti anni fa io ho fatto il liceo a Vicenza. Per un anno nella nostra classe c’è stato, ammesso alle lezioni come semplice visitatore, Pierre [leggi Pier], un ragazzo che era venuto da Parigi ad abitare per un anno nella nostra città col padre che era un famoso architetto, professore di storia dell’arte, che doveva fare uno studio sulle ville palladiane e con la madre che era una nota scrittrice italiana di origine veneta. Pierre era molto legato a uno zio paterno, antropologo.
Di Pierre, finita la scuola, noi compagni di classe non abbiamo saputo più niente, ma molti anni dopo, quando ormai abitavo e lavoravo a Roma, un giorno che ero tornato a Vicenza, mentre camminavo in centro, ho incrociato un uomo con la barba completa, come la mia, che a quei tempi era una rarità; ci siamo guardati un attimo con complice curiosità, ma fatti alcuni passi ci siamo entrambi girati di scatto perché avevamo avuto l’impressione di conoscerci. «Tu sei... tu sei...» diceva l’altro mentre io esclamavo: «Lemier Dummond ... Pierre».
Ci siamo abbracciati, felici di esserci incontrati, e siamo andati al bar Garibaldi in piazza dei Signori, come avevamo fatto spesso da ragazzi, quando marinavamo la scuola, dove siamo stati ore a raccontarci della nostra vita. Gli ricordai del mio imbarazzo a pranzo a casa sua e del suo aiuto, ma non se lo ricordava.
Eravamo coetanei, ma Pierre sembrava più vecchio di me ed era fisicamente proprio malridotto; parlava lentamente e con qualche difficoltà. Era diventato antropologo e passava la maggior parte della sua vita presso tribù primitive ancora presenti in posti lontani dai posti civili per studiarle; conosceva molte lingue di tribù del Borneo che non avevano quasi avuto contatti con il mondo “civile” fino al suo arrivo.
Non era sposato; mi disse che probabilmente non aveva figli e io mi misi a ridere apprezzando molto il suo senso dell’umorismo. Lui disse, sorridendo, che non era una battuta spiritosa, ma la verità. E a me rimase il dubbio se scherzasse o meno.
Si complimentò con me per il mio aspetto sano e, secondo lui, giovanile. Io lo punzecchiai subito dicendogli che a vivere con popolazioni primitive si finisce per condividerne anche l’invecchiamento precoce.
A mangiare bruchi, a curarsi con le sanguisughe, a fare danze scalzo nel fango contro i reumatismi e ad avvelenarsi con gli allucinogeni …
Gli chiesi se lui era della corrente degli antropologi che non interferiscono mai con i primitivi durante le loro visite di studio e addirittura non si oppongono neanche al cannibalismo o ai sacrifici umani o alla violenta sottomissione delle donne.
Ovviamente lui pensava proprio che uno scienziato che studia una popolazione primitiva, deve interferire il meno possibile con la stessa: non deve fare il missionario che mette il reggiseno alle ragazze e fa venire il senso di colpa per le loro attività sessuali; non deve dargli vaccini e antibiotici o farli studiare; l’ideale sarebbe di essere un osservatore invisibile.
Io non potevo accettare che lui potesse assistere a sacrifici umani senza fare qualcosa per impedirli e che non si desse da fare per fornire vaccini e antibiotici ai bambini per salvarli da malattie mortali.
Discutemmo, o meglio, litigammo a lungo e appassionatamente. Più discutevamo e più ciascuno di noi radicalizzava la sua posizione e ci scambiammo gravi accuse reciproche.
Io dicevo che era giusto che si portassero ai primitivi vaccini, antibiotici e scuole; lui voleva che la loro cultura rimanesse come era o meglio che evolvesse senza contaminazioni esterne. Io lo accusavo di essere razzista perché non considerava i primitivi come cittadini dello stato dove vivevano con il diritto a cure e istruzione come tutti gli altri. Lui dava del razzista a me perché non rispettavo la cultura dei primitivi, la loro specificità e li consideravo inferiori.
Devo dire che nei giorni seguenti e anche dopo, ho pensato molto a questo dilemma: Quando si scopre una tribù primitiva, bisogna intervenire con istruzione, vaccini, medicine (e quindi distruggere la loro cultura) o lasciarli al loro destino? Non so rispondere: trovo che entrambe le posizioni hanno vantaggi e svantaggi, sono giuste e ingiuste. In proposito sono rimasto “agnostico”. 
Per non litigare definitivamente, tornai al suo discorso che non sapeva se aveva figli e gli rimproverai scherzando che non rispettava il suo principio di non interferenza nella vita delle indigene e lui, sempre sorridendo, diede di nuovo a me del razzista: «Non c’è nessuna differenza sostanziale tra un europeo e un indigeno, come non c’è tra uno svedese alto e biondo con gli occhi azzurri e un cinese, a parte caratteri secondari; ho frequentato indigeni molto saggi e molto intelligenti, anche se ignoranti in storia, in geografia e scienze. Ma, per esempio, con straordinaria capacità di captare e interpretare segnali della natura che io non riuscivo a percepire. Molto più saggi e molto più intelligenti di tanti razzisti francesi o americani studiati da antropologi con cui aveva collaborato. C’è una sola razza umana ed è unica. Io non ho “inquinato” nessuno, anzi “nessuna”».
Ribattei che non avevo nulla da obiettare sul fatto che i cacciatori/raccoglitori antichi e gli uomini contemporanei di tutte le parti del mondo fossero una unica razza umana con differenze solo di caratteri fisici secondari come avere i capelli lisci o ricci o crespi, avere corporatura tozza o snella, alta o bassa o per il colore dei capelli, degli occhi, della pelle. Ma che c’era una profonda differenza culturale nel campo dei diritti umani che indicano, secondo me, un progresso nel tempo dell’umanità. Per esempio i diritti dei bambini e delle donne e degli omosessuali sono enormemente più avanzati nei tempi moderni, dopo la rivoluzione francese, in molti paesi. Noi siamo più civili delle popolazioni che non rispettano le minoranze.
Rispose che i cambiamenti di civiltà non sono un progresso costante ma una alternanza di avanzamenti e di arretramenti e che certe culture primitive sono più civili di certe culture contemporanee.
Nota: A proposito di etnie, una mia amica giapponese mi disse che in Giappone chiamano bianchi (e considerano superiori) gli asiatici che noi chiamiamo gialli e chiamano rosa noi europei, che ci chiamiamo bianchi (e che ci consideriamo a nostra volta superiori).
«Da evitare —disse Pierre— sono gli inquinamenti culturali. Chi siamo noi per distruggere usi e costumi, la cultura, di una popolazione? Ci consideriamo superiori o siamo solo diversi? La diversità è una ricchezza».
Mi parlò delle isole Trobriand, nel Bòrneo, dove aveva vissuto in un’isola dove gli abitanti erano pacifici e tolleranti. Le stesse isole dove Malinowski aveva fatto i primi studi sistematici su popolazioni primitive e aveva scoperto che alcune popolazioni erano pacifiche e tolleranti. Al contrario in un’isola non lontana, con popolazione che parlava la stessa lingua e aveva le stesse credenze, i locali erano pieni di tabù, soprattutto sessuali, e c’erano molti delinquenti e molte trasgressioni che venivano punite con ferocia. A me vennero in mente Atene e Sparta, nell’antica Grecia, e di come vi venivano educati i giovani.
A un certo punto del discorso mi disse: «In Borneo ho incontrato la befana e ho passato una giornata a discutere con lei. È stato un incontro veramente importante per me». «Vuoi dire che c’era una stregona, una specie di befana che …». Mi interruppe: «No, no, ho incontrato proprio la vera befana italiana, viva e vegeta, che da molti anni è scappata via dall’Italia disgustata dall’inquinamento, dal consumismo e dalla corruzione degli italiani. Penso al mio ritorno in Borneo di incontrarla di nuovo. Discutere con lei è molto interessante». Mi misi a ridere, ma lui, sempre serio, insisteva.
Gli raccontai allora di come io, da bambino, scoprii che la befana invece non esiste. Dovevo avere cinque o sei anni quando una casetta nell’orto che veniva usata come ripostiglio per le biciclette e per fare i bucati a mano delle lenzuola nei mastelli con acqua bollente e cenere (mia suocera, pur devota cattolica, diceva che avrebbero dovuto fare santo chi ha inventato la lavatrice, non chi vedeva la Madonna), qualche settimana prima del giorno della befana venne chiusa con un lucchetto con una scusa ridicola che mi sembrò subito una delle solite bugie che i grandi dicono ai bambini per evitare di dare spiegazioni.
Il giorno dopo, arrampicatomi su un albero di fichi che cresceva al lato del ripostiglio riuscii a vedere da una finestrella in alto perché era stato chiuso lo sgabuzzino: c’erano tutti i regali che eravamo stati convinti a chiedere alla befana.
Capii subito che la befana erano i nostri genitori e tutto eccitato corsi da mia sorella, più grande di due anni: «Bruna, ho scoperto che la befana non esiste!» «Io lo sapevo già» «E perché non me lo hai detto?» «Perché tu sei piccolo!» «Scema».
Subito dopo corsi da mio fratello piccolo, due anni meno di me, e dissi anche a lui della mia grande scoperta. Si mise a piagnucolare e chiamò subito: «Mamma, mamma, Giorgio dice che la befana non esiste». Mia madre arrivò come una furia e mi fece cenno di quante ne avrei prese se non smettevo subito.
Al contrario di quello che amano credere i grandi, io non fui per niente deluso della mia scoperta, anzi ero felice, orgoglioso e addirittura eccitato. Me ne ricordo ancora. Ero cosciente di aver fatto una scoperta notevole, un passo in avanti nella mia maturazione e avevo avuto l’ennesima conferma che i grandi imbrogliano spesso i bambini. Da quel momento avrei capito molte cose che prima non capivo, perché i grandi facevano di tutto per imbrogliarmi. E la stessa felicità, lo stesso orgoglio e la stessa eccitazione provai a 10/11 anni quando capii che dio non esiste. Pierre osservò che non potevo essere assolutamente certo che la befana non esiste. Io risposi che mi accontentavo della certezza oltre ogni ragionevole dubbio. Per me la probabilità che esistesse era piccolissima, praticamente nulla: gli argomenti a favore dell’esistenza erano contraddittori e poco convincenti. E non mi importava niente che lui fosse uno scienziato e proprio un antropologo. Per convincermi avrei dovuto leggere un suo articolo in proposito pubblicato su una rivista importante che pubblica articoli preventivamente controllati da altri suoi colleghi, con le sue osservazioni, con foto, filmati, registrazioni di conversazioni, testimonianze, ecc. Poi avrei aspettato gli articoli di altri suoi colleghi che si fossero recati a incontrare la befana per fare delle verifiche e solo dopo avrei preso in considerazione le sue affermazioni per farmi una mia idea sull’eventuale esistenza di questa befana.


Si era fatto tardi e quando abbiamo dovuto per forza lasciarci Pierre era rimasto nella sua posizione: aveva visto la vera befana, ci aveva parlato a lungo e contava di vederla di nuovo perché era molto amico di un capo tribù che la frequentava spesso.
Non l’ho più rivisto e non so altro di lui. Sulla sua affermazione che la befana esiste io penso che sia probabile che lui volesse prendermi in giro oppure che gli intrugli degli stregoni, che aveva detto di aver ripetutamente provato, gli avevano rovinato il cervello e non riusciva più a distinguere la realtà dalle fantasie.
Avrei potuto chiedere a Pierre di tornare con lui in Borneo e parlare personalmente con questa “befana”, ma ero sicuro (ragionevolmente sicuro) che non valeva la pena sprecare tempo e troppi soldi. Arrivati nell’isola avrebbe certamente trovato una scusa per giustificare l’impossibilità dell’incontro. Forse avrebbe detto che la befana rifiutava di incontrarmi perché io sono troppo razionale o forse perché sono italiano. Il mio compagno di viaggio concordò con me che avevo fatto bene a non andare in Borneo: «Non sarebbe servito a niente. La befana non esiste»!
Pensai subito che implicitamente mi dava ragione quando io non volevo approfondire il discorso sull’esistenza del suo dio. Ma non gli dissi niente.

Relatività del Torto
Qualche tempo fa ho ricevuto da uno dei miei lettori una lettera scritta a mano con pessima calligrafia. Mi sono comunque sforzato di decifrarla, nel caso contenesse qualcosa di importante. Nella prima frase, dichiara di essere un laureando in letteratura inglese, ma di sentirsi in dovere di darmi una lezione di scienze (sospiro, perché conosco pochi laureati in letteratura inglese che possano insegnarmi qualcosa di scientifico, ma continuo a leggere, conscio della mia ignoranza e pronto a imparare da chiunque indipendentemente dalla sua qualifica). Pare che in uno dei miei innumerevoli scritti io abbia espresso qui e là una certa soddisfazione per il fatto di vivere in un secolo che ha raggiunto una corretta comprensione delle basi dell’universo. Senza entrare nel merito, mi limitavo a dire che oggi conosciamo le leggi fondamentali che regolano l’universo e le interrelazioni gravitazionali tra i suoi componenti più importanti, come mostrato dalla teoria della relatività elaborata tra il 1905 e il 1916. Conosciamo anche le leggi basilari che governano le particelle subatomiche e le loro interrelazioni, chiaramente descritte dalla teoria dei quanti elaborata tra il 1900 e il 1930. Inoltre, tra il 1920 e il 1930, abbiamo scoperto che le galassie e gli ammassi di galassie sono le unità di base dell’universo. Tutte queste scoperte sono avvenute nel XX secolo.
Il giovane specialista in letteratura inglese, dopo aver citato qualche mia frase, passava severamente a rendermi edotto del fatto che in ogni secolo la gente ha creduto di aver compreso definitivamente l’universo, e che ogni volta si è dimostrato che aveva torto. Ne segue che l’unica affermazione che possiamo fare a proposito delle nostre conoscenze attuali è che sono errate. …
L’implicazione era che io fossi molto sciocco perché credevo di saperla lunga. Ahimè, niente di tutto ciò era per me una novità…
Questo argomento, in particolare, mi era stato proposto un quarto di secolo prima da John Campbell, specialista nell’irritarmi. Anche lui sosteneva che tutte le teorie si sono rivelate errate nel tempo. La mia risposta era stata:
John, quando la gente credeva che la Terra fosse piatta, aveva torto. Quando credeva che fosse sferica, aveva torto. Ma se tu credi che ritenere la Terra sferica sia altrettanto sbagliato che ritenerla piatta, allora il tuo punto di vista è più sbagliato di tutti e due i precedenti messi insieme.
Il problema di fondo è che la gente pensa che “giusto” e “sbagliato” siano termini assoluti [la sottolineatura è mia], che ogni cosa che è non perfettamente e completamente giusta sia totalmente e ugualmente sbagliata. Io non la penso così. Mi sembra che ragione e torto siano concetti complessi e che valga la pena di dedicare questo scritto alla spiegazione del mio punto di vista.
Ora, da dove viene l’idea di una “ragione” e di un “torto” assoluti? Credo che la loro origine affondi nei primi anni di vita, quando i bimbetti che conoscono poche cose sono istruiti da insegnanti che ne sanno più di loro. I bambini imparano l’ortografia e l’aritmetica, per esempio, e qui incontriamo qualcosa di apparentemente assoluto. Come si scrive “zucchero”? Risposta: z-u-c-c-h-e-r-o. Giusto. Qualunque altra risposta è sbagliata. Quanto fa 2+2? La risposta giusta è 4. Qualunque altra risposta è sbagliata.
Avere risposte esatte e avere un “giusto” e “sbagliato” assoluti minimizza la necessità di pensare, e questo fa piacere agli studenti come agli insegnanti. Per questa ragione maestri e allievi preferiscono a un esame articolato dei test con risposte brevi, magari da scegliere in uno schema a scelta multipla o del tipo vero-falso. A mio parere, test del genere non sono adatti a misurare la comprensione dell’argomento da parte dello studente. Danno soltanto il grado di efficienza della sua capacità di memorizzare.
Capirete quello che voglio dire ammettendo che giusto e sbagliato sono concetti relativi. Come si scrive “zucchero”? Alice risponde p-q-z-z-f, mentre Manuela risponde s-u-c-c-h-e-r-o. Hanno sbagliato entrambe, ma c’è qualche dubbio che Alice abbia sbagliato più di Manuela? Oppure supponete di scrivere “zucchero”: s-a-c-c-a-r-o-s-i-o oppure C12H22O11. Strettamente parlando, avete sbagliato entrambe le volte, ma avete dimostrato una conoscenza dell’argomento al di là della semplice scrittura.
Supponiamo allora che la domanda fosse: in quanti modi diversi sapete scrivere “zucchero”? Date una giustificazione per ciascuno dei modi. Naturalmente lo studente sarebbe costretto a pensarci e, alla fine, a mostrare quanto – poco o molto – sa in proposito. L’insegnante, a sua volta, dovrebbe riflettere parecchio per valutare le conoscenze dell’allievo. Immagino che entrambi si sentirebbero oltraggiati.
Ancora, quanto fa 2+2? Giovanni dice 2+2=rosso, mentre Mario risponde: 2+2=17. Entrambi hanno torto, ma non è insensato giudicare l’errore di Giovanni più grave. Supponiamo che voi diciate: 2+2=un numero intero. Avreste ragione, no? Oppure: 2+2=un numero intero pari. Avreste ancora più ragione. Oppure: 2+2=3,9999. La risposta non sarebbe quasi giusta? Se l’insegnante si aspetta di sentire 4 e non distingue tra i diversi livelli d’errore, non è forse un limite non necessario imposto alla conoscenza? Ora la domanda è: quanto fa 9+5? Voi rispondete: 2. Cessato il clamore suscitato dalla risposta, sareste ridicolizzati e messi di fronte al fatto che 9+5=14. Se poi vi si dice che sono passate 9 ore da mezzogiorno, e quindi sono le 9 di sera, e vi si chiede che ore saranno tra 5 ore, voi risponderete 14, forti della conoscenza certa che 9+5=14. Ovviamente sareste di nuovo ridicolizzati ed edotti che la risposta è: le 2 di notte. Dopo tutto, pare che in questo caso 9+5 sia uguale a 2. Ancora, immaginate che Riccardo dica: 2+2=11 e, prima di essere spedito a casa con una nota sul diario, si affretti ad aggiungere: “in base 3, naturalmente”. Avrebbe ragione […]
Di conseguenza, quando il mio giovane amico esperto di letteratura inglese mi dice che in ogni secolo gli scienziati hanno creduto di aver compreso l’universo e hanno sempre avuto torto, quello che io voglio sapere è quanto avevano torto. Sbagliavano tutti nella stessa misura? Facciamo un esempio.
Agli albori della civiltà, l’opinione generale era che la Terra fosse piatta. Non perché la gente fosse stupida o disposta a credere a delle sciocchezze. Pensavano che fosse piatta in base a una sana evidenza. Non era solo una questione di “è così che appare”, perché la Terra non sembra piatta: la sua superficie è piena di montagne, vallate, gole, scogliere e via dicendo. Certo, esistono le pianure dove, per un’area limitata, la Terra sembra abbastanza piatta. Una di queste pianure si trova nella zona del Tigri e dell’Eufrate, dove si sviluppò la prima civiltà della storia (in possesso della scrittura), quella dei Sumeri. Forse fu l’aspetto della pianura a convincere gli acuti Sumeri ad accettare la generalizzazione che tutta la Terra fosse piatta: eliminando alture e depressioni, quello che rimaneva sarebbe stato piatto. Deve aver contribuito a formare questo concetto il fatto che le acque di stagni e laghi sembrano molto piatte nei giorni di calma. Un altro modo di considerare la questione è chiedersi quale sia la “curvatura” della superficie terrestre, di quanto cioè devia (in media) da un piano perfetto se misurata su una distanza considerevole. Secondo la teoria della Terra piatta non c’è alcuna deviazione, per cui la curvatura risulta 0 [zero] per chilometro.
Oggi c’insegnano che la teoria della Terra piatta è sbagliata: tutta sbagliata, terribilmente sbagliata, assolutamente sbagliata. Ma non è così. La curvatura terrestre è quasi 0 per chilometro, dunque, per quanto effettivamente sbagliata, la teoria della Terra piatta è casualmente quasi corretta. Per questo è durata a lungo.
Certamente c’erano motivi per considerare questa teoria insoddisfacente: intorno al 350 a.C. il filosofo greco Aristotele ne fece un elenco.
Primo, …
Per di più, Aristotele credeva che tutta la materia tendesse a muoversi verso un centro comune e, nel far questo, la materia solida finisce con l’assumere una forma sferica. Circa un secolo dopo Aristotele, il filosofo greco Eratostene notò che il Sole gettava ombre di lunghezza differente a differenti latitudini (tutte le ombre avrebbero la stessa lunghezza se la superficie terrestre fosse piatta). Dalla differenza di lunghezza delle ombre calcolò la dimensione della sfera terrestre, ottenendo il valore di 40.000 chilometri per la circonferenza. La curvatura di una tale sfera è circa 0,000126 per chilometro, un valore molto vicino allo 0 per chilometro e non facilmente misurabile con le tecniche a disposizione degli antichi. La minuscola differenza tra 0 e 0,000126 dà ragione del lungo tempo trascorso tra la Terra piatta e la Terra sferica.
Badate, anche una differenza minima, come quella tra 0 e 0,000126 può essere importante. È una differenza che conta. Non si può fare una mappa accurata di un’area vasta della Terra senza tener conto di tale differenza e senza considerare la Terra sferica anziché piatta. Così come non si può intraprendere un lungo viaggio in mare senza disporre di un modo ragionevole per determinare la propria posizione. Inoltre la Terra piatta presuppone la possibilità di una Terra infinita oppure l’esistenza di un “termine” della superficie. Invece la Terra sferica postula una Terra senza termine e tuttavia finita, ed è questo secondo postulato ad essere in accordo con tutte le scoperte successive. Dunque, pur essendo la teoria della Terra piatta solo leggermente sbagliata, e di ciò va riconosciuto il merito ai suoi inventori, tuttavia era sbagliata a sufficienza per essere scartata a favore della teoria della Terra sferica.
E allora la Terra è una sfera? No, non è una sfera; non in stretto senso matematico. Una sfera ha certe proprietà matematiche: per esempio, tutti i diametri (cioè tutte le linee rette che vanno da un punto all’altro della sua superficie passando per il centro) hanno la stessa lunghezza. Questo non è vero per la Terra: diversi diametri della Terra differiscono in lunghezza. Come fece la gente ad accorgersi che la Terra non è una sfera perfetta? Per cominciare, i contorni del Sole e della Luna sono cerchi perfetti, entro i limiti di misurazione del tempo dei primi telescopi. Il che si accorda con l’ipotesi che Sole e Luna abbiano una forma perfettamente sferica. Invece le prime osservazioni al telescopio di Giove e Saturno rivelarono contorni che non erano cerchi, ma ellissi. Questo significava che Giove e Saturno non erano propriamente sferici.
Isaac Newton, verso la fine del XVII secolo, dimostrò che un corpo massiccio doveva formare una sfera sotto l’effetto delle forze gravitazionali (proprio come Aristotele aveva previsto), ma solo se non stava ruotando. In rotazione, un effetto centrifugo avrebbe sollevato la materia contro la gravità, con un effetto tanto più sensibile quanto più ci si avvicinava all’equatore. L’effetto aumenta anche in funzione della velocità di rotazione, e Giove e Saturno ruotano davvero molto velocemente. La Terra ruota molto più lentamente di Giove e Saturno, per cui l’effetto doveva essere minore, ma pur sempre presente. Nel XVIII secolo furono fatte misurazioni della curvatura terrestre che diedero ragione a Newton. In altri termini, la Terra ha un rigonfiamento all’equatore e si appiattisce ai poli: è quel che si dice uno “sferoide schiacciato”, più che una sfera. Perciò i vari diametri della Terra sono di diversa lunghezza. I diametri più lunghi sono quelli che passano per punti opposti dell’equatore: il “diametro equatoriale” è di 12.755 chilometri. Il diametro più corto va dal polo nord al polo sud: questo “diametro polare” è di 12.711 chilometri. La differenza tra il diametro maggiore e il diametro minore è di 44 chilometri e questo vuol dire che lo schiacciamento della Terra (il grado di scostamento dalla vera sfericità) è di 44/12.755, cioè 0,0034 che equivale a 1/3 dell’1%.
Detto altrimenti, su una superficie piatta la curvatura è ovunque 0 per chilometro. Sulla superficie di una Terra sferica la curvatura è ovunque 0,000126 per chilometro [12,6 centimetri per chilometro]. Sulla superficie di una Terra sferoide la curvatura varia da 12,557 centimetri per chilometro a 12,642 centimetri per chilometro. La correzione passando dalla sfera allo sferoide schiacciato è molto minore di quella tra il piano e la sfera. Di conseguenza, se il concetto di Terra sferica è sbagliato, strettamente parlando, non è tanto sbagliato quanto il concetto di Terra piatta. Sempre strettamente parlando, anche la nozione della Terra come sferoide schiacciato è sbagliata. Nel 1958, quando il satellite Vanguard I fu messo in orbita intorno alla Terra, fu possibile misurare l’attrazione gravitazionale locale della Terra, e quindi la sua forma, con una precisione senza precedenti. Risultò che il rigonfiamento equatoriale a sud dell’equatore era leggermente più pronunciato di quello a nord dell’equatore e che il livello del mare al polo sud era leggermente più vicino al centro della Terra di quello al polo nord. Non sembrava esserci altro modo di descrivere questa deformazione se non dicendo che la Terra è a forma di pera: subito molta gente decise che il pianeta non aveva niente di sferico, ma assomigliava piuttosto a una pera Barlett penzolante nello spazio. In realtà la deviazione a pera rispetto allo sferoide schiacciato è una questione di metri più che di chilometri e l’aggiustamento della curvatura è dell’ordine dei milionesimi di centimetro per chilometro.
Per farla breve, amico letterato inglese, vivendo in un mondo mentale di torto e ragione assoluti possiamo immaginare che, dato che tutte le teorie sono sbagliate, la Terra possa essere considerata sferica oggi, cubica il prossimo secolo, un icosaedro cavo il prossimo ancora e a forma di ciambella quello successivo. Nella realtà, una volta che gli scienziati s’impadroniscono di un buon concetto, gradualmente lo migliorano e lo estendono di pari passo con l’evoluzione degli strumenti di misurazione disponibili. Le teorie non sono tanto sbagliate quanto incomplete. Questo vale in molti altri casi oltre a quello della forma della Terra. Perfino le nuove teorie più rivoluzionarie scaturiscono di solito da piccoli aggiustamenti. Una teoria che richiede qualcosa di più di una piccola modifica non può durare a lungo.